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Sempre in Giro

Riscaldamento

greg cunreo

Bruno Cicognani, La “bicicletta”

Avevo passata la ventina, preso il diploma della scuola di giurisprudenza, fatto il soldato e « se non muti registro – mi predicava mio padre – e cambi metro non diventerai mai uomo. Ogni anno che passa ti scema il nitidio, n’avevi di più a sett’anni: sicuro! che omino, a sett’anni, che testina ordinata! promettevi davvero di diventar qualche cosa, ma ora…. non sai neppur te che cosa tu cerchi, che cosa tu voglia, non star fermo in un’idea cinque minuti e quando ti frulla un capriccio ti butti là a corpo morto e così avanti a casaccio, a furia di dirizzoni e di volate… non concluderai mai niente: ricordati quel che ti dice tuo padre». Io ero il primo a dar ragione a mio padre, il quale anche a me come a tutti incuteva una gran suggezione – quasi religiosa – e a me non per il fatto ch’era un alto magistrato a riposo e commendatore a più doppi (ogni volta che dal Ministero gli era stato fatto un torto, gli avevan dato per compenso un cióndolo), ma per la solidità del carattere e del cervello: uomo tutto d’un pezzo, ragionatore d’un’inflessibilità formidabile (sicché pensate quanti torti 929t1919j ricevuti e quindi quanti cióndoli).

Anche a vederlo, imponente mio padre, con la bella testa di vecchio italiano d’ingegno – i capelli lunghi e la barba intera socratica e la fronte vasta col solco forcuto dell’accigliatura (la coscienza che di continuo si vigila). Il mio male era che moralmente – quant’a fisico, uno scrìcciolo a petto di mio padre – moralmente lo somigliavo a pezzettini; e codesti pezzettini

staccati facevano in me tutt’un altro effetto, parevano tutt’un’altra cosa che nella struttura paterna: viziacci pare-vano: mulàggine, manìa della contraddizione ed eran proprio loro la causa del disordine, delle incongruenze, del mio non compicciar nulla, codesti tasselli sbalzanti di sul fondo della mia natura, ahimé! dolce fondo d’ingenuità e di sensibilità, fondo di sognatore e di poeta, qual’era tutta l’anima divina di mia madre.

E a far di me una creatura a getto continuo di sorprese per chi non mi conoscesse intus et in cute, ci aveva anche in fluito il modo buffo di fare tra me e mio padre.

Ci correvano tra noi più di quarant’anni. Fin tanto che io ero stato piccino egli aveva veduto in me rigermogliare se stesso, ma quando s’era accorto che un essere diverso veniva fuori e cresceva sempre più diverso se n’era avuto per male e, come se ci avessi avuto colpa io, aveva smesso di darmi confidenza, e ne soffriva, e del soffrirne se la rifaceva, corrucciato, coll’esercitare su me l’autorità paterna come una ti rannia. Io, impaniato dal timore reverenziale, non mi sapevo spiegare il cruccio di mio padre e non facevo nulla per chia rire il malinteso, come, dal canto suo, mio padre non faceva nulla per modificarmi perché, in fondo in fondo (se debbo es ser sincero) tutte le sue pretese si riducevano a esigere una aderenza formale, tant’è vero che quand’ebbi passata una certa età si può dire che non ci fosse giovinetto lasciato, in timamente, a sé com’ero lasciato io. Mio padre si limitava a tenermi dietro cogli occhi – macerandosi dentro per l’ansia e il dolore – si limitava a guardarmi da lontano andare a ciampiconi oppure a rotta di collo o a piè zoppo o a capriole, in tralice, all’indietro, a zig-zag, per la via della vita. E quindi io non avevo neppure sentito mai il bisogno d’una libertà maggiore di quella che effettivamente godevo, sebbene in apparenza portassi sempre, anche passati vent’anni, il collare domestico. Ed ecco come potevami accadere, ogni tanto, in una delle mie volate, di trovarmi improvvisamente a tu per tu con me stesso e come allora fossero dolori.

L’ultimo «riscaldamento», per usare la terminologia di mio padre, la bicicletta. «Ora t’è venuta la manìa della bicicletta: proprio all’età in cui a tutti è bell’e passata da un pezzo; tanto per essere, anche in questo fatto, a rovescio degli altri. Fin a ieri, a sentirti, l’andare in bicicletta era da ragazzi di bottega e da fattorini del telegrafo, un rovinarsi i polmoni; bellini ad annaspare colle gambe sopra al macinino! Ed oggi non c’è nulla che sia più distinto, che più si confac-cia alla salute, che doni di più all’estetica delle persone, quanto il correre sopra il «cavallo d’acciaio». Sempre da un eccesso all’altro! Perché ora tu saliresti anche le scale in bicicletta e non sei mica andato a scegliere una macchina adatta per città e su cui stare a garbo in una posizione corretta…. macché ! sei andato a scegliere una macchina da corsa, con un manubrio giù che ti tocca a andar colla testa in terra e le nàtiche in aria…. se quella ti pare una posizione che doni, se ti sembra di mantenere a quel modo il contegno dovuto, non c’è altro che da sperare in un miracolo che ti faccia riacquistare un barlume di buon senso e un tantino d’amor proprio. E dire che a sett’anni avevi tanto giudizio! A sett’anni ti saresti vergognato d’andar per Firenze indecentemente chi-noni a quel modo! Ed invece all’età d’esser uomo, di concludere: bella figura!»

Io non rifiatavo. Capivo troppo bene che sarebbe stato tempo perso e fiato sprecato cercar di persuadere mio padre, l’ermo nel culto della compostezza classica, che quella posa slanciata era modernamente significativa della tensione che ad ogni scatto si riconcentrava, era l’espressione dell’energia dinamica costante nello sviluppo della velocità, la sintesi rigida del movimento…. Una volta che m’azzardai a tentare questa illustrazione, mio padre me la troncò con un «Quanti strambòttoli! Povero cervello in liquidazione! E dire che a sedici anni traducevi Platone senza vocabolario!» E non si rendeva conto, mio padre, ch’era stata proprio colpa di Platone e prima di Omero e prima di Virgilio e prima di Cesare e prima di Cornelio Nipote, se io non ero andato in bicicletta quand’era il su’ tempo.

Ci andavo ora che finché non avessi deciso se continuare gli studi di legge o dedicarmi tutto a coltivare il mio orti-cello poetico o se accettare provvisoriamente un impiego ero in vacanza dalla vita; eppure, intanto, i problemi dello spirito mi si affacciavano tumultuosi alla coscienza inesperta, e tutto il mondo ideale che era stata la gioia della mia fantasia, il riposo della mia fede, apparivami o insulso o rovesciato o vuoto…. Via, senza campanello nel via-vai di Piazza del Duomo; via, di prima mattina in campagna a trenta chilometri all’ora alla piana, senza scendere alle salite, senza freno alle scese per strade solitàrie e sconosciute colla bréccia vergine che non ero tanto a metter toppe alle gomme, via a be-vere rugiada come le cicale, e a inzupparmi dell’odor dei cipressi e dei pini, di sole e di sudore; e per le case dei contadini il latte schiumoso ancora tepido e l’ovo che la gallina ha scodellato allora ; tornare irriconoscibile per il polverone della strada maestra e sotto la doccia accorgermi d’aver risoluto il quesito d’Amleto. Chi avrebbe mai creduto, a vedermi, che il correre a pazzo arcuato a quel modo su una macchina così leggera, col manubrio rovesciato all’ingiù e con quel po’ po’ di moltiplica e senza mai sonare il campanello fosse il modo con cui curavo il mio spirito in crisi?

Fin dalla prima lezione m’era rimasto impossibile d’andar adagino. Sicché avevo abbracciato più alberi delle Cascine che donne e i primi giorni che m’ero azzardato sfacciatamente in città m’ero sentito trattar di tutti i vituperi e ero dovuto scendere e leticare e mettermi a repentaglio o chieder scusa: non si contavano le contravvenzioni e meno che mai le volte che i vetturini m’avevano stretto fra le ruote del fiacre e il marciapiede. Ma di grave non m’era successo mai nulla: soltanto una sera, in via Maggio, avevo messo sotto una bambina che traversava di corsa la strada con un pentolino vuoto in mano: la bambina per le terre strillava per arnor del pentolino andato in pezzi – io le avevo ripagato il pentolino e la bambina s’era consolata.

Con quell’andar sempre di corsa su una macchina da corsa avevo finito per credere d’essere un corridore davvero. Ora, in sei mesi – perché s’era a settembre e la prima lezione la avevo presa al marzo nel viale rasente al prato delle corse al galoppo alle Cascine dalla parte del fosso macinante (ancora se ne risentivano le siepi) – in sei mesi, neppur ad avere una complessione da atleta e la costanza d’un allenamento alla tedesca, corridori non si diventa. Figuriamoci poi io per cui metodo e sistema erano e sono state sempre cose contro natura e che, come ho detto, non ero un colosso: tutta forza nervosa: fascio di nervi asciutto, vibrante – ma sui banchi della scuola i muscoli perdono il loro tenore di resa e il cervello che non si nutrisce di polpa di realtà ma di falsificazioni più o meno ben riuscite degenera in un mostruoso meccanismo, che .lavora a vuoto e si logora quindi vivendo mise-serabilmente a proprie spese. Fatto sta che quand’ebbi constatato che dalla Barriera Aretina a Pontassieve c’impiegavo trentun minuto e quaranta secondi e ch’ebbi fatta la strada Bolognese dal Ponte Rosso a Pratolino e la Consuma fin a Borselli senza scendere di macchina, la persuasione di star a pari di qualunque corridore su strada aveva messe in me radici di molto profonde.

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